Dopo un periodo di quiescenza torna in Italia un nome che a rigor di logica non avrebbe bisogno di presentazioni. Purtroppo invece non è così e China Miéville, tra i pochi nomi contemporanei del comparto SFF la cui grande letterarietà è recensita dalle grandi testate culturali anglofone e confermata da un costante successo di vendite, ispira parimenti sconfinata ammirazione nell’appassionato e assoluto smarrimento nei lettori forti italiani. Alle volte sfugge alla mia logica come poi si possa definire “forte” un lettore iperconsapevole della scena letteraria high brow & McSweeney’s che per pregiudizio ignori da più di 15 anni il re del New Weird (titolo riconosciutogli prima che una geniale strategia editoriale di Einaudi rendesse la corrente postulata da Jeff VanderMeer cool anche tra la gente giusta) e plurivincitore di qualsivoglia premio letterario relativo. Specie quando le medesime persone intessono le lodi di Stephen King, Margaret Atwood e Jennifer Egan.
Esponente del partito comunista inglese e scrittore dalle opinioni politiche e letterarie forti e di conseguenza molto divisivo, China Miéville torna in Italia con un suo titolo blasonato. Il suo capolavoro conclamato, Perdido Street Station, per fortuna è già stato tradotto e un altro suo grande titolo, La città & la città, riposa nelle librerie di quanti se lo sono procurati. Embassytown sta un po’ nel mezzo, tra i romanzi più noti dell’autore e i titoli meno citati, forte del suo status di unicuum. Per uno scrittore mutevole come Miéville, capace di creare mondi radicalmente diversi in ogni romanzo e di abbinarli di volta in volta a stili e sottogeneri letterari molto distanti tra loro, questa incursione netta nel genere fantascientifico non ha precedenti né successori.
Come tanti prima di lui (e forse il più noto rimane Samuel R. Delany con Babel-17, il romanzo vincitore di Hugo e Nebula Award nel 1966) China Miéville ha deciso di usare un pianeta e una popolazione aliena, Arieka e Ariekei, come espediente narrativo per tornare su uno dei suoi cavalli di battaglia, il linguaggio e il potere che ha la lingua su chi la usa e sulla realtà che definisce.
Intorno al lontano avamposto di Embassytown, l’ambasciata in terra ariekea dell’impero umano comandato dalla città di Bremen, si consumano anche drammi politici, relazioni amorose, mire espansionistiche e riflessioni sulla colonizzazione (spaziale ma di fondo molto terrestre). Al centro del romanzo però c’è il Linguaggio, il misterioso idioma parlato dagli alieni Ariekei, che gli umani utilizzano a costo di grandi sacrifici.
L’assunto affascinante su cui si basa questa lingua è che possa esprimere solo ciò che è vero e concreto, e solo attraverso due voci comandante da una sola volontà senziente. Insomma, il Linguaggio parla del vero ma in un certo senso rende vero il reale, almeno per gli Ariekei, che non riescono nemmeno a concepire tutto ciò che è astratto, metaforico, allegorico, falso o non venga comunicato nella loro lingua.
Se per i linguisti è un unicuum irresistibile e per gli umani scatena spesso interpretazioni dogmatico-religiose, per tutti coloro che lo parlano diventa il germe di un destino tragico, che si compie nella seconda parte del romanzo. Per gli Ariekei, inconsapevoli prigionieri di una lingua che non permette loro di astrarre, di mentire, di immaginare ciò che non è, diviene un elemento così radicato nel loro essere da poter trasformare le loro vite senza per loro possibilità di opporsi. Per ogni Ambasciatore (una coppia di cloni che condivide il nome, l’identità e il sacro compito di comunicare con due voci e un solo intento con gli Ariekei) il sacrificio è ancora più mastodontico, perché a differenza degli alieni, ognuno di loro è tragicamente consapevole delle rinunce che comporti il parlare questa lingua.
Pur essendo un grande romanzo e una delle migliori uscite SFF per il mercato italiano nel 2016, Embassytown non è il titolo migliore con cui entrare in contatto per la prima volta con un universo letterario disegnato da China Miéville. Posto che il romanziere britannico è noto per l’estrema complessità e articolazione delle sue opere e in questa sembra trarre notevole diletto dal rendere fumosa, confusa e incomprensibile l’ambientazione del romanzo, tanto che il lettore dovrà muoversi praticamente alla cieca per circa un centinaio di pagine. Insomma, è necessario leggere un quarto di libro per raccogliere con grande fatica gli elementi necessari per la comprensione dell’utopia di Arieka, proprio un attimo prima che questa s’incrini irreversibilmente. Certo, per chi affronta questa sfida il traguardo è una delle realtà più autenticamente aliene (nel senso di profondamente non umano e irrimediabilmente inconoscibile), più complesse e riuscite del panorama fantascientifico degli ultimi anni.
Ne vale sicuramente la pena, ma forse per chi è completamente a digiuno dell’autore sarebbe consigliabile un approccio più accessibile (ma non per questo meno intrigante e strutturato) come La città & la città.
Il secondo motivo è, ancora una volta, l’edizione italiana. Purtroppo proprio l’editore a cui dobbiamo il ritorno in Italia di Miéville ha un rapporto talvolta difficile con il processo di adattamento e traduzione. Non siamo di fronte a casi limite di romanzi così mal trasposti da risultare quasi illeggibili (vedi I Fiumi di Londra di Ben Aaronovitch) e c’è stato un certo passo in avanti rispetto allo stesso La città & la città, in cui una comparazione diretta con il testo originale testimonia come la fumosità di certi passaggi non sia dovuta a una volontà dell’autore quanto da una resa scorretta del suo discorso.
Pur non essendo mai una sostenitrice degli adattamenti filologici alla Gualtiero Cannarsi e pur ammettendo che, senza una comparazione diretta, il testo risulta di scorrevole lettura, non posso licenziarlo come un buon adattamento. Prendendo alcune pagine a campione (per chi abbia curiosità o pazienza, forniamo qui un altro esempio oltre a quello riportato nella didascalia qui sopra) e confrontando il fraseggio inglese con quello italiano, si nota che la traduzione accorpa i periodi, omette parti del discorso, manipola parzialmente il significato (e qualche volta proprio lo travisa). Per un romanzo che parla della fascinazione e del pericolo della manipolazione del linguaggio è uno strano destino, ma il risultato purtroppo è troppo differente dall’originale per poterlo considerare davvero buono. La voce narrante di Avice è tradita, vittima forse dell’intento di renderla più aulica, forse dei tempi stringenti di lavorazione.
Certo la lettura in lingua originale richiede grande padronanza della lingua e comunque è possibile godersi il romanzo anche in italiano. La strada verso un adattamento all’altezza dell’opera è però ancora lunga, e forse l’approccio adottato è errato dall’inizio. Fanucci sta dando prova negli ultimi anni di crescente attenzione verso il pubblico e le sue esigenze, per cui non si può che chiedergli di rivedere il processo e scovare il passaggio che finisce per tradire tutto il loro lavoro. Una critica che muovo a un editore che ci ha fornito una copia del libro per permettere quest’operazione, per il bene di noi lettori, dello stesso editore e di un grande autore che in Italia tanti devono ancora scoprire.
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